Il pubblico, il privato. La piccola impresa familiare, la multinazionale tascabile, il colosso che da solo fattura quanto il PIL di un Paese in via di sviluppo.
Il made in Italy che ci viene subito in mente—design, moda, cibo eccellente e vini forse ancora migliori — e quello insospettato, al quale non pensiamo mai perché siamo un popolo sempre in bilico tra spacconate e masochismo e quindi: lo sappiamo, come no, che nell’arte del buon vivere non ci batte nessuno, ma facciamo fatica a credere che sia così anche quando oltre alla creatività serve «la testa». Meccatronica, per esempio. O farmaceutica. I loro prodotti non saranno appealing quanto, per dire, le sfilate della Milano Fashion Week o le mille etichette di Vinitaly. Ma, sorpresa: anche quelli sono settori in cui il marchio made in Italy è sinonimo di plusvalore intrinseco. Più all’estero che qui da noi, per la verità. Siamo un Paese la cui economia è fondata sulla manifattura e sulla piccola e media impresa, ma non abbiamo idea del fatto che la fabbrica di cui siamo magari vicini di casa è leader mondiale di un certo tipo di produzione. Oppure: il vicino di casa di cui sopra è una delle società di una multinazionale dell’energia e l’associazione che facciamo — bollette folli a parte: questo è, si spera, un problema contingente — è con l’inquinamento, senza nemmeno chiederci se invece, su spinta anche del mercato e dei consumatori, proprio là non sia in corso una piccola rivoluzione green. Allo stesso modo: non lo sospettiamo neppure, che gli stabilimenti metalmeccanici (quelli all’avanguardia, almeno) oggi siano puliti e silenziosi quasi come laboratori chimici, non più il novecentesco regno di sporco, grasso, oli industriali, rumori infernali, puzza di saldatura e vernici e solventi tossici, polveri che spesso erano veleni.
La scommessa (vinta). Ecco. Tutto questo per dire quanto sia vario il panorama industriale italiano e quanto poco lo conosciamo. Non solo: ci sono quartier generali societari, fabbriche, spazi aziendali che spesso sono anche musei della nostra storia manifatturiera o, viceversa, celebrazioni d’arte e architettura contemporanea. E allora, se il «contenitore» — cioè la sede dell’impresa — merita già in sé di essere visitato e altrettanto vale per il contenuto» — ciò che l’impresa produce, beni o servizi che siano, e soprattutto «come» lo produce — da qui non potrebbe nascere una forma particolare di turismo culturale? E non potrebbe, questa forma di turismo, rispondere a un’esigenza che è degli stessi imprenditori (i più illuminati, almeno), ossia stringere il rapporto con il territorio attraverso l’apertura, la conoscenza, la trasparenza? È da questa scommessa che, otto anni fa, ItalyPost ha lanciato Open Factory. I test dei primissimi tempi hanno dimostrato che sì, in effetti una domanda c’è, e anche abbastanza alta: alle edizioni successive, organizzate insieme a L’Economia, la «domenica delle fabbriche aperte» ha visto il tutto esaurito in ognuna delle aziende che hanno partecipato all’iniziativa. Ora che, passata l’emergenza Covid, si torna alle visite «dal vivo» e non solo online, com’è forzatamente stato in quel periodo, si aggiunge un terzo promotore. Il Touring Club Italiano non ha bisogno di introduzioni. La sua presenza nell’organizzazione conferma le potenzialitа di un evento che è diventato «il più importante opening di turismo industriale e cultura manifatturiera».
Verso il tutto esaurito. Open Factory 2022 è in agenda per domenica prossima, 27novembre. Sarа trasversale —per settori,dimensioni, proprietа pubblica o privata — come i precedenti. E come i precedenti va verso il sold out (modo di dire: la partecipazione è gratuita).Un sold out prevedibile, probabilmente, per la «fabbrica dei Baci» (la Perugina, ovvio), così come per l’antica villa del Seicento nella Bassa parmense in cui la Negroni produce e stagiona il culatello, o per la tessitura che la Gabel possiede a Buglio in Monte, in provincia di Sondrio, e dove i «Ciceroni» della visita saranno gli stessi proprietari della societа e i suoi manager.
Però, in questi anni, abbiamo imparato che il «tutto esaurito» arriva anche dove non è scontato perché il richiamo non è lo stesso di chi produce — per restare in tema — cioccolata o salumi dop. Vedi la Snam, tanto per fare un esempio, che sul successo di Open Factory ha scommesso dall’inizio e ha avuto ragione: quest’anno rilancia aprendo al pubblico l’impianto umbro che ricava biometano dai rifiuti organici urbani (a proposito di svolte green). O vedi gli aeroporti. Sì, è chiaro che l’idea di andare dietro le quinte (per quanto possibile) di un check-in esercita un forte richiamo. Ma neppure alla Save, che come sempre «apre» gli scali di Venezia, Treviso, Verona, immaginavano quanto: iscrizioni giа sold out, tocca mettersi in lista d’attesa.